martedì, ottobre 30, 2007

I Guerrieri dello Spirito - Leonardo V Arena

AutoreLeonardo V Arena
TitoloI Guerrieri dello Spirito
Titolo Italiano
Anno2006 - Mondadori
Giudizio****

Un argomento che affascina molti è oggigiorno il legame che c'è
tra i kamikaze dell'11 settembre ed i kamikaze e altri affini delle
epoche passate. Come in moltissimi altri casi, il termine “kamikaze” è
applicato “a pioggia” dagli occidentali piuttosto che dagli attori in prima
persona. Essi definiscono se stessi di solito in altro modo, forse
"Guerrieri dello spirito" è una definizione che potrebbe piacergli.

Ricordo che "kamikaze" deriva da "kami" (spiriti/spirito elementari)
e "kaze" (vento, tempesta) e si riferisce in origine a tutt'altro: alla
tempesta che impedì l'invasione mongola del Giappone nel XIV secolo.

Il libro di L. V. Arena è un testo godibilissimo che esplora la linea
di confine tra il mondo materiale e il mondo dello spirito, del quale
si assiste oggi ad un grande ritorno (ma forse non ci ha mai
lasciato ?). Da questo punto di vista esso indaga sui vari gruppi
che hanno tentato sia in occidente sia in oriente di superare la
contraddizione insita nel dualismo tra il corpo, visto soprattutto
nella sua espressione limite e quindi come arma, e lo spirito
che normalmente rifugge dalla materialità del combattimento.
D’altro canto il combattimento quando mette in gioco la vita è
l’atto col quale corpo si approssima alla morte, a Thanatos e
quindi ad uno stato “altro” dalla realtà materiale (l'altro corno del
dilemma è il sesso che fa capolino ogni tanto per le abitudini
non proprio ortodosse dei gruppi chiusi).

Questa contraddizione affascina e sconvolge. Si
ondeggia tra l'ignoranza dottrinale che consente a molti
guerrieri occidentali, come Templari e Ospitalieri, di
superarla. Fino alla fondazione e alla deviazione progressiva
della stessa dottrina alle proprie esigenze, come hanno
cercato di fare gli Assassini e i monaci buddisti dediti alla
guerra, e, piu recentemente, anche il nuovo
fondamentalismo islamico.


Scuse che non valgono per i samurai la cui vocazione alla morte
nasce fin dall'inizio della loro carriera. Secondo l’autore sono loro
che in fondo, pur essendo dei laici, hanno rappresentato il modello
ideale del “guerriero dello spirito” colto, che poteva dedicarsi alle
lettere ed alla pittura e quindi avvicinare il (super)uomo completo.
Agli orientali questo riesce credo anche grazie all'"assenza
dell'anima" (nayratmia) che sottende allo Zen o al
buddismo, ma in generale a tutto il loro pensiero. Il samurai non
colpisce con la spada, è questa che, come il verso di un Hai-ku o
il tratto di pennello, scaturisce fuori naturalmente a cercare la
sua perfezione, “parmenidea” oserei dire, nell’atto del colpire
senza alcuna volontà causale all’origine. E’ l'assenza che
permette la fusione tra corpo e spirito, termini di solito
contraddittori: una mistica non del tutto estranea nemmeno
all'occidente in fondo, sebbene al di fuori del pensiero
convenzionale aristotelico.

Questa "assenza" si ritrova anche nell'uso del corpo come
arma assoluta, il senso di sconforto e inevitabilità che proviamo,
quando sentiamo che l'azione kamikaze moderna non può essere
evitata, poiché l'attore è una mera macchina assente (fusa con
La "macchina", normalmente l'aereo per la sua caratteristica
di massimizzare il danno).

Lo stile particolare di Arena merita una citazione. Il progredire del
capitolo è segnato dall'incipit che appare come un’epifania, una
storiella, un episodio raccontato come fosse un romanzo. A volte
può infastidire, ma alla lunga si rivela illuminante molto più dello
snocciolamento di date e avvenimenti. Esso pure, infatti, ci avvicina
allo spirito dei personaggi in gioco. Questo stile è lo stesso degli altri
libri di Arena, che pure consiglio di leggere come "Samurai" e
"Kamikaze" (nel secondo si narra la storia dei piloti giapponesi)
sempre editi da Mondadori in Oscar Storia. Devo dire che lo
stratagemma non è sempre riuscitissimo, a volte è estraniante, ma
migliora con l'età dell'autore di libro in libro.

E' nell'ultimo capitolo che Arena ci mostra le differenze e le
similitudini tra i kamikaze giapponesi e quelli islamici. Le differenze
dottrinali pesano al punto che si possono identificare i gesti e l'atto,
ma le motivazioni profonde appaiono diverse gli uni cercano
disperatamente di salvare la patria senza alcuna contropartita
salvo che la fusione e la scomparsa nel gran fiume dei kami,
mentre gli altri sono in cerca del "martirio" che li eleggerà come
beati in uno dei paradisi monoteisti. Concezione questa
si tutta occidentale, anzi di derivazione manichea e poi
neoplatonica, con la sua ossessione per il puro e il bene
in opposizione all’impuro e al male.

La presenza di una seconda realtà più "vera" fa anche capolino
con la citazione di Matrix nelle conclusioni. E pure ci affascina il
gioco di ruolo, il fantasy, il romanzo gotico ed altro ancora, forme
in fondo d’alterazione della realtà alla ricerca di una seconda
possibilità, segno anche di libertà, parola in cui incorre anche il
libro di Arena e che non sempre si oppone allo spirito. Forse
che Mimesis, il capolavoro di Erich Auerbach sul realismo,
andrebbe riscritto dal punto di vista di un lettore della Terra di
Mezzo.

venerdì, settembre 07, 2007

Lo potevo fare anche io - Francesco Bonami

AutoreFrancesco Bonami
TitoloLo potevo fare anche io
Anno2007
GiudizioInutile, inconcludente, soldi sprecati
Riferimentianobii


Annuncia il sottotitolo: "perché l'arte contemporanea è davvero arte?". La promessa di spiegarlo è il semplice motivo per cui ho comprato questo libro. Purtroppo non solo l'autore fallisce chiaramente e completamente il suo dichiarato intento ma, per buona parte del libro, pare addirittura essersene dimenticato.

Cosa ti aspetti quando qualcuno spende le parecchie pagine del capitolo introduttivo per affermare che "finalmente" ti spiegherà perché l'arte contemporanea è veramente arte? Ti aspetti che subito dopo cominci a spiegarti le sue motivazioni, ti dia una definizione di quello che intende per "arte" e ti porti esempi di ciò che, secondo la sua definizione, è arte e di ciò che non lo è.

Il primo capitolo introduce un artista, porta alcuni esempi delle sue opere e ci spiega, secondo il critico, quale possa essere il significato che il presunto artista vuole comunicare con quelle opere. Uso la definizione "presunto artista" per precisa scelta, poiché nel capitolo non vi è nessuna traccia del perché si debba considerare tali opere "arte" e non merda in scatola (letteralmente).

Il secondo capitolo ripresenta lo stesso schema ma per qualche riga mi illude: c'è un flebile accenno al fatto che, in Italia, siamo abituati a considerare artisti solo quelli che, in primis, abbiano una chiara competenza tecnica nella loro disciplina. Speranzoso continuo a leggere, forse l'autore sta per arrivare al punto.

Dal terzo al quinto capitolo, calma piatta, tanta critica ed interpretazioni delle opere. A latere troviamo qualche auto incensamento dell'autore nel suo ruolo di rinomato critico.

Da settimo capitolo in poi, le cose peggiorano nettamente. L'autore si dimentica completamente del fatto che ha promesso di scrivere un libro per neofiti e smette di introdurre gli artisti e le loro opere, passa direttamente alla critica degli artisti. Il povero artisticamente illetterato lettore, destinatario eletto del libro, non può fare altro che studiare da altre fonti le opere dell'artista in oggetto prima di leggere il capitolo se vuole avere speranza di capirci qualcosa. Una selva di riferimenti incrociati, spesso ad autori non ancora trattati, confonde senza requie.

Il capitolo conclusivo aggiunge la beffa al danno. Con assoluta non curanza, l'autore ci informa che questo capitolo dovrebbe rispondere alla domanda iniziale, finalmente spiegarci perché, secondo l'autore, certe cose siano arte ed altre no. L'argomento è liquidato in meno di tre pagine con qualcosa del tipo "perché spiccano nella generale mediocrità del panorama artistico circostante".

Riepiloghiamo: Il libro promette di essere un libro sulla critica dell'arte, sulla definizione di arte e arte contemporanea ed invece è un libro di critica dell'arte contemporanea. Il libro è inutile anche come introduzione all'arte contemporanea perché scritto in maniera incomprensibile per il neofita per l'eccessivo numero di concetti e nozioni date per scontate.

Chiudo il libro e mi domando cosa ho imparato da questa lettura. La risposta è "nulla"! Ho imparato molto di più dalle ricerche che ho fatto sulla wikipedia per cercare di capir qualcosa dell'inutile guazzabuglio che è questo libro. Inoltre ho intenzione di liquidare la prevedibile obiezione che, almeno, questo libro mi avrebbe spinto ad informarmi sull'arte contemporanea, facendovi notare che fare click su questo link non costa 15 euro e non contribuisce alla deforestazione amazzonica.

LLP, Andrea

lunedì, giugno 04, 2007

Coraline - Neil Gaiman

AutoreNeil Gaiman
TitoloCoraline
Titolo ItalianoCoraline
Anno2003
GiudizioGuardare oltre le apparenze...

E' un libro piccolino, Coraline, di quelli che si leggono in un paio di ore, magari nel classico pomeriggio d'inverno. D'accordo, sono una fan di Gaiman e non sono molto obiettiva ma Coraline è una bella storia, evocativa e leggera, a tratti un po' spaventosa. Ricca di quei ritratti 'alla Gaiman' che troviamo nei suoi scritti. Personaggi curiosi, vagamente assurdi, saggi o completamente pazzi. Qui degni nota sono un gatto parlante, le due sorelle vicine di casa e, soprattutto, la stessa Coraline.

Coraline è una bambina molto curiosa che ama definire se stessa un'esploratrice. Siamo sul finire dell'estate, ed è un momento molto drammatico: la scuola non è ancora cominciata e la bambina ha già esplorato la vecchia casa dove abita, è andata a trovare i vicini, ha giocato con il gatto, ha esplorato il giardino in lungo e in largo. Ha giocato a tutto il possibile e l'impossibile, ma ora si annoia e tanto.

Un pomeriggio, spinta dal papà a contare le porte della casa e svariate altre cose (tra cui tutte quelle blu), si avvicina alla quattordicesima porta, quella sempre chiusa. Corre in cucina a prendere le chiavi, ma la porta si apre semplicemente su di un muro di mattoni e non c'è davvero niente di curioso o speciale.

Ma un giorno, il giorno più noioso di tutti, qualcosa spinge Coraline ad aprire nuovamente quella porta... i mattoni sono spariti, al loro posto un lungo corridoio si inoltra nel buio. Ecco. Qualcosa di nuovo da esplorare, finalmente.

Alla fine del corridoio, un'altra casa e, dentro, l'altra madre e l'altro padre. Uguali ma non troppo ai genitori della bambina, con dei lucidi bottoni neri al posto degli occhi. Presenti e premurosi, in netto contrasto con la vera mamma sempre di corsa e il vero papà sempre al lavoro. Da questo lato tutto è più divertente, l'altra madre è amorevole e attenta, il gatto ha il dono della parola, e cose curiose e divertenti accadono. L'altra madre chiede a Coraline di restare, di diventare sua figlia, ma la bambina è saggia e coraggiosa, e, sebbene tentata, alla fine torna alla sua vera casa.

Tuttavia, il giorno in cui i suoi veri genitori spariscono nel nulla, Coraline saprà esattamente dove dovrà andare a cercarli.

L'altro mondo è sempre affascinante, l'altra vita è sempre più bella e divertente. In questo Coraline ci porta a riflettere sulla realtà speculare, sull'attraversare lo specchio, ma soprattutto sul fare delle scelte per una vita forse più semplice. Ma attenzione, perché il prezzo da pagare per l'altra vita c'è sempre ed è sempre molto alto.

Consigliato a chi pensa che le favole siano solo roba per bambini.

NdiSash: Shand, no... non fare quella faccia, non sono un miraggio o un programma difettoso prodotto dalla matrice. Sono proprio io e questa è la mia prima recensione dopo tutto questo tempo. Per la seconda... chissà? Magari mi distraggo un attimo, as usual, e passano un altro paio di anni! :-)

mercoledì, maggio 23, 2007

[curiosità] L'uomo delle montagne

Meno avvolto nel mito del suo alter ego europeo, Woodwose,
l’uomo delle montagne, è il rappresentante di una epopea
puramente maschile che si è sviluppata grosso modo dal 1810
fino al 1840, quando ormai i pionieri coi loro carri iniziavano ad
invadere i territori scarsamente popolati del Nordamerica,
mentre castori e bisonti iniziavano a declinare. Nell’immaginario
nordamericano, meno nella realtà commerciale delle companies,
egli rappresenta l’uomo civilizzato che torna alla natura e perde
quella patina borghese e flaccida per tornare ad un pieno totale
contatto con la natura in una terra spopolata e selvaggia. Egli è
totalmente autonomo e libero, e questi sono i “comforts”
probabilmente più sostanziali che gli possiamo invidiare, dato
che la vita tra le grandi pianure e le montagne rocciose all’epoca
non era certo facile. Quella che segue è la traduzione dal libro
di George Laycock delle impressioni dal vivo di uno dei primi
viaggiatori sul continente riguardo ad un autentico mountain man:

La sua pelle a causa della costante esposizione assumeva un
tono quasi scuro come quello di un nativo, e i suoi caratteri e
struttura fisica assumevano una forgia rude e dura. I suoi
capelli, per la mancanza di attenzione, divenivano lunghi,
ruvidi come il sottobosco, e ricadevano sciolti sulle sue spalle.
La sua testa era sormontata da un cappello di lana a falda bassa,
o un rude sostituto fatto da lui stesso. I suoi vestiti erano di pelle
scamosciata di cervo, decorati da frangie alle cuciture con stringhe
dello stesso materiale, tagliato e manipolato in un modo del tutto
peculiare a quell'uomo ed ai suoi associati...ai suoi fianchi era una
cintura di pelle alla quale erano attaccati i foderi del suo coltellaccio
e delle pistole - mentre dal suo collo era sospeso una tasca per
proiettili attaccata saldamente alla cintura sul davanti, e sotto il
braccio destro pendeva un corno da polvere trasversalmente
passato sulla sua spalla, dietro il quale, su di un spallina erano
assicurati uno stampo per pallottole, un cacciavite o un’acciarino,
un portamonete, un punteruolo, etc. Possiamo immaginarlo con
una stecca di legno duro per l’avan-carica e un buon fucile nelle
sue mani, mentre s’apre la strada a fatica carico anche con trenta o
trentacinque balle (di pelliccie), l’autentico uomo delle montagne
completo del suo equipaggio...l'uomo delle montagne che e' il suo
proprio manovale, sarto, calzolaio e macellaio, e puo' sempre nutrire
e vestire se stesso, e godere di tutti i comforts che la sua
situazione permette.

Rufus B. Sage, cit. in The Mountain Men di George Laycock,
The Lyons Press, Guilford CT,
6th edizione, 2006. Traduzione di Jakk.

The Mountain Men

Virgin Land: The American West As Symbol and Myth, by Henry Nash Smith.

martedì, aprile 24, 2007

Gli Illuminati e il Priorato di Sion - Massimo Introvigne

AutoreMassimo Introvigne
TitoloGli Illuminati e il Priorato di Sion
Titolo Italiano
AnnoPiemme - 2005
Giudizio****
Tra i più noti esperti di quei fenomeni parareligiosi
che sono le sette e le credenze di massa, M. Introvigne
ha prodotto un agile libretto che ci spiega in dettaglio
come Dan Brown abbia costruito abilmente su delle
incredibili lacune e sabbie mobili di sette inventate
a volte per puro caso, credenze popolari e storiografia
alla buona (come le arcinote leggende sui templari che
sarebbero rimasti nell'ombra anche dopo la loro
distruzione).

Il libro è godibilissimo sotto l'aspetto storico con
un’accurata ricostruzione delle fonti, e degli intrecci,
passaggi di testimone (spesso contestati da
interminabili cause in tribunale), finte riscoperte, finte
parentele e per finire finte edizioni retrodatate ex-post
che sono classiche nell'evoluzione delle sette esoteriche
quando cercano di inventarsi una tradizione.
Scoprire che il Priorato di Sion non è che una setta
composta nel suo periodo d'oro in tutto di tre
o quattro persone opera di un fascistello francese
disoccupato è qualcosa che non si può perdere. L'autore
trova anche il tempo di accennare al noto film Disney
Il mistero dei Templari che prolunga e rafforza la
tradizione della scomparsa "sottotraccia" dei cavalieri
e che permette ad Introvigne di spiegarci con una dotta
disquisizione l'origine NON massonica del disegno del
retro del Great Seal (il sigillo ufficiale degli Stati
Uniti: un occhio posto su di una piramide tronca, disegno
che appare anche su tutte le banconote da un dollaro).

Assolutamente comico è poi il gran finale tra X-files,
i "rettiliani" e il principe Filippo (già proprio lui
Filippo d'Inghilterra) con l'ennesima interpretazione
dell'incidente del Pont du L'Alma.

Più impegnativi sono invece alcuni temi che emergono
qua e la nel libro, soprattutto all'inizio, e nelle
conclusioni. In primo luogo, si chiede Introvigne,
perchè le grandi religioni, nonostante il loro revival
post-illuministici, nonostante le moltissime persone
che sono affamate di spiritualità, non riescono ad
attrarre più di un 20% circa di credenti veramente
osservanti. In genere l'altro 60% di chi si dichiara
credente (circa l'80% nei paesi occidentali) non
appartiene ad una chiesa in particolare, è un "credente
senza chiesa" ("believier without belonging"). Questo
non appare però come l'effetto della modernità e della
secolarizzazione, ma è l'opposto: è nei "credenti
senza chiesa" che si assiste al ritorno di credenze
esoteriche, pseudo-scientifiche, e quindi alla
speculazione che le chiese, in particolare quelle
delle grandi religioni monoteistiche siano
detentori di poteri occulti e persino di "grandi"
complotti. (D'altra parte anche le chiese vi si
adattano trovando nel culto popolare dei santi e
di una ritrovata mistica, un mezzo, sempre più
veicolato dai media, anche per ri-attrarre a se gli
appassionati delle sette segrete e dei misteri,
quei "credenti senza chiesa" appunto.)

Quali motivazioni che spingono delle persone in
genere razionali a credere in un metacomplotto
(o grande complotto). La risposta è a mio parere
determinata dalla voglia di trovare delle risposte
facili e deterministiche alla complessità del mondo,
cosa che non sempre le grandi chiese, in quanto
organizzatrici di bisogni spirituali su vasta scala,
non riescono sempre a dare. Paradossalmente se la
scienza fosse più conosciuta e diffusa avremmo un
numero maggiore di "credenti con chiesa", infatti,
i temi gnostici/complottisti sarebbero presi per
quello che sono ovvero bufale in parte ben riuscite.
L'essoterismo è l'altra faccia di questa medaglia,
esso nasce proprio perché le credenze esoteriche,
essendo, di fatto, al di fuori della cultura ufficiale,
possono dare quelle spiegazioni semplici che servono
a collocarsi/collocare nel mondo se stessi e gli altri
con un ruolo ben preciso, buono o cattivo che sia.

Voglio infine notare che al contrario dell'autore io
penso che sia illusorio credere che la percentuale
dei credenti strettamente osservanti ad una chiesa
superi il 40%, forse in eccezionali periodi di "great
awakening" può arrivare al 50%, ma ci sarà in ogni
caso una notevole percentuale di persone, che si
dichiara "credenti senza chiesa", anche perchè
colloca i bisogni spirituali nelle cose individuali
più che collettive. (Diceva un famoso capo indiano
"le chiese servono a litigare su Dio".) Quindi il
fatto che l'80% si dichiari credente, ma solo il 20%
va in chiesa, non è caratteristico della nostra epoca,
ma é probabilmente un dato storico con qualche
oscillazione del 10% in più o in meno. Naturalmente le
motivazioni che Introvigne dà del "grande complotto"
sono coerenti con questo: una buona parte di quel 60%
di "credenti senza chiesa" motiva il suo rifiuto
d’appartenenza con le teorie del "grande complotto"
e questo fa vendere molti libri a Dan Brown.

sabato, marzo 10, 2007

Psychofarmers(R) - Pietro Adamo e Stefano Benzoni

AutorePietro Adamo e Stefano Benzoni
TitoloPsychofarmers(R)
Titolo Italiano
AnnoEdizioni Isbn 2005
Giudizio****

Accompagnato da un ricchissimo e rivelatore apparato iconografico
storico pubblicitario sugli psicofarmaci, il libro si pone come
una vera enciclopedia (per questa parte merita cinque stelle *****)
che esplora tutti gli aspetti medici, etici ed estetici dell’uso e
dell’abuso degli psicofarmaci.
Innovativa appare la descrizione della fiction connessa
(ma poi non tanto fiction) attraverso libri, film e opere in
qualche modo connesse con gli psicofarmaci, come il celebre Paura e
Delirio a Las Vegas, altri film iconici come All That Jazz di Bob
Fosse che morirà come il suo protagonista, o canzoni celebri come
Lithium dei Nirvana, saggi celebri e provocatori come Prozac
Nation, ma persino episodi dei Simpson, di Desperate Housewives e
per finire anche Zio Paperone.

Ma l'elenco delle "icone" è addirittura impressionante se si pensa che
sono citati: Woody Allen, Dario Argento, William S. Burroughs, Johnny
Cash, Philip K. Dick, Rainer W. Fassbinder, Bret E. Ellis, Francois
Truffaut e Ray Bradbury, Judy Garland e Janis Joplin, Kurt Cobain e
Syd Barrett, David Lynch e Andy Warhol, la "maggiorata" Marilyn
Monroe e la magrissima intellettuale dell'anarcocapitalismo Ayn Rand
e da qui a J. P. Sartre, J. F. Kennedy, Elvis Presley.... sembra quasi
che chi manca sia in netta minoranza, almeno nella cultura dominante
d'oltreoceano e dei suoi derivati.

Gli aspetti trattati sono molteplici e questa semplice
recensione difficilmente potrà dare un idea della complessità
del fenomeno analizzato che certamente neanche
il libro esaurisce, ma ha il merito di porre come aspetto
problematico del postmoderno. Infatti, l’uso di queste cosiddette
“droghe legali” è strettamente connesso all'interpretazione cattiva
o buona d’alcuni miti dell'immaginario collettivo che travolgono
anche sistemi di riferimento come l'asse destra - sinistra per
rispuntare da ogni direzione.

Come già è evidente in Napoleon’s buttons (vedi recensione del
1 febbraio 2007) il labile confine tra droghe proibite e legali è
specialmente poi nel campo dei “quasi-legali” psicofarmaci in
pratica inesistente essendo il passaggio dall’uso all’abuso tanto
facile e diffuso. Condivido completamente il punto di vista degli
autori: gli psicofarmaci sono medicine utili in qualche caso, ma
l’abuso sistematico è da evitare, senza poi parlare delle strane
“scoperte” dell’industria farmaceutica.
Curiosa a questo riguardo è l'iconografia ormai fuori moda perché
non politically correct del "vecchietto nevrotico" al quale si
consigliavano alla buona farmaci dagli effetti massicci sul sistema
nervoso centrale che oggi diremmo devastanti. Anche la storia
che vuole la tardiva diffusione degli psicofarmaci nei paesi orientali,
e.g. il Giappone, apparentemente causata dal fatto che alcune
patologie da loro non esistevano "prima" che esistessero anche
i farmaci per curarle appare sospetta. Un sospetto che investe
anche noi ora con la querelle sulla sindrome d'iperattività dei
bambini e la recente introduzione del rimedio miracoloso Ritalin
(la vera "guest star" negli episodi delle serie TV ricordate sopra).
Tra le teorie più curiose e almeno per me sconclusionate cito
quella che vorrebbe il Prozac come “rivelatore della nostra vera
natura genetica”, l'idea di Peter Kramer che in seguito ha portato
al successo il libro di Elizabeth Wurtzel - Prozac Nation.
Certamente l’azione di alte dosi e la nascita di una dipendenza nel
caso degli psicofarmaci come il Prozac è in grado di fare una
(apparente o reale) tabula rasa nel cervello di alcuni, ma cosa
c’entri coi geni è tutto da scoprire. Se l’azione del farmaco è tale
da creare su uno strato “vergine”, un "se" differente, questo
probabilmente spiega il suo successo come ingenerante una
sensazione liberatoria. Se questo sia qualcosa di stabile o mera
illusione è probabilmente ancora da scoprire. Infatti, da quanto
scrivono gli autori, l'azione degli antidepressivi di ultima
generazione, detti SSRI (tra questi è proprio il Prozac) non è
ancora del tutto chiara scientificamente e alcune conseguenze,
come il problema di un aumento dei suicidi, non sono ancora
state indagate a fondo.

Un commento separato è necessario per il saggio finale (***):
inizia bene, ma poi si perde un poco nell'affanno di mettere
Focault nella partita. Credo che la cosa migliore sia il ragionamento
sulla divaricazione tripla che affligge il problema e che provo a
descrivere qui:

1) psicofarmaci come cura col problema del ruolo dei medici e della
medicalizzazione e il rapporto con la società che cerca di conservarsi
(qui l’aspetto “di destra” della cosa: il medico, psichiatra o psicologo,
è affine al poliziotto o al prete, vigilatore dell’integrità morale)
riservando la fenomenologia dell’abuso anche in questo caso solo a
speciali categorie (lo sciamano ieri, il rocker o la star oggi);

2) psicofarmaci come svago con i vari aspetti culturali e nella loro
diffusione di massa e quindi dell’abuso di massa, non detto, non
passato attraverso i canali di controllo istituiti dalla società (i medici
generici subentrano nel ruolo degli specialisti, fino ad arrivare
all’autoprescrizione, e alla farmacia “online”), senza contare l’effetto
emulativo degli stimolanti/tranquillanti legali: alcool, tabacco e,
perché no, caffeina che è comunque uno stimolante (vedi il
successo di Red Bull o Starbucks) che consente un passaggio
“morbido” dal legale, al semi-legale, fino all’autoprescrizione
e all’abuso;

3) il rifiuto della pillola che poi ritorna però sotto la forma
ammissibile (sul versante del pensiero progressista “antipsichiatrico”
stavolta) della psicodelia, liberazione dal “male” gestito dalle
multinazionali che s’inventano malattie e cure (ma in realtà è
sempre la natura ludica a farla da padrona: così assistiamo, come
in altri campi, alla lotta tra lo “psichedelico=prodotto_biologico naturale”
e lo “psicofarmaco=prodotto_industriale artificiale”).

“2” mi sembra il centro con il ruolo delle maggioranze silenziose
uso-abusanti, ma sono possibili anche le altre interpretazioni che
possono diventare, in epoca di facili superficiali isterismi, anche del
tutto divergenti.

PS il titolo, "contadini della psiche", non chiedetemi che significa
perché anche se ha un’apposita voce nel libro non è per niente
spiegato dagli autori.

giovedì, febbraio 01, 2007

Il maiale che vuole essere mangiato - Julian Baggini

AutoreJulian Baggini
TitoloThe Pig That Wants to be Eaten (2005)
Titolo ItalianoIl maiale che vuole essere mangiato (e altri 99 esperimenti mentali)
AnnoCairoeditore 2006
Giudizio****1/2

Una volta ogni tanto qualche lezione di filosofia
fa bene alla meccanica emozionale della mente ecco
perché ho deciso di segnalarvi il bel libro di Julian Baggini.
Lo stile è di brevi "operette morali" che
prendono spunto da temi classici della filosofia morale
(e non solo) alle quali segue il commento filosofico dell'autore.
Sono piccole parabole o storielle incastonate in un discorso
fitto e intrecciato tra loro segnalato dagli opportuni
riferimenti incrociati tra i vari capitoletti. Quest'approccio
potrebbe sembrare dispersivo ad un'impostazione tradizionale,
ma io penso che renda il libro leggero e molto leggibile perché
si può cominciare da un capitoletto qualsiasi e poi dai
riferimenti di questo andare avanti.

Baggini è essenziale, asciutto, lo stile è quello sobrio e
molto pulito della filosofia analitica di stampo anglosassone
che non si nasconde dietro alle discussioni terminologiche
continentali, a volte importanti, ma che in molti casi ci
allontanano dal problema piuttosto che permetterci di
affrontarlo per le corna. Sono domande o questioni in molti
casi molto attuali e l'autore ha il pregio di guardarsi
attorno con attenzione.

Ad esempio ci dovremmo chiedere in continuazione, come
in un Koan zen, per empatia che faremmo noi al posto di
Hani, costretto a scegliere tra torturare il figlio del terrorista
che ha piazzato una bomba o far subire alla collettività una
strage.
Quale decisione etica prenderemmo?
A quale sistema morale ci potremmo appellare ?
In questi e altri casi il Koan non sembra e forse non ha
soluzione come un problema indecidibile (e forse un
collegamento tra il pratico e il teoretico non è nemmeno
tanto azzardato in questi casi). Come si fa a decidere,
in effetti, tra l'orrore di torturare una persona vicina a
noi peraltro innocente e l'orrore futuro di mille vittime
che si potevano evitare?
(Qui un commento che va oltre Baggini l'ho buttato li': è
a mio parere appunto una "questione di distanza",
temporale o spaziale, ma questa risolve veramente il Koan?
Anche ragionare sulla distanza è forse eticamente sbagliato.)

Interessante è anche il tema ripreso più volte dei dialoghi
tra Dio e il filosofo in cui si mostra come il primo abbia
alcune evidenti difficoltà nel confronto con i principali temi
della filosofia morale. Un altro tema, più teoretico, è quello
del cosa significhi essere coscienti e la nozione collegata
della continuità psicologica messa in questione da ... Star Trek.

Come i riferimenti a Matrix, a Minority Report ed ad altri
"classici" recenti sono la prova che il filosofo non deve
chiudersi in una torre aristotelica in cui all'apparenza è tutto
sistemato e che la filosofia dovrebbe avere una diffusione
maggiore tra le persone poiché essa può aiutarci a dialogare
tra noi e a porre le basi per affrontare quelle situazioni di
decisione, anche estrema, che si possono presentare
all'improvviso in ogni momento della vita.

Quanto al tema del "maiale" non credo che sia davvero
convincente per i vegetariani, ma è di certo una provocazione
intelligente su di un argomento, quello delle sofferenze che
infliggiamo a polli e maiali per poi mangiarli, anche questo
spesso poco analizzato dal pensiero filosofico tradizionale
troppo antropocentrico.

Non voglio rovinarvi il gusto di leggere Baggini dicendovi
troppo. Percio', su questo tema controverso, vi propongo
una vera storiella zen-style.

In una giornata primaverile un discepolo invita il maestro
a pranzo. Dopo aver mangiato una squisita polpetta di manzo
con l'insalata si mettono entrambi un poco al sole in giardino.
Un bel tordo si poggia a poca distanza sul fontanile, il maestro
prende un sasso e con un colpo ben assestato lo colpisce
uccidendolo all'istante.
Il discepolo rimane interdetto. 'maestro', balbetta, 'ogni giorno
quel tordo veniva qua a bere dal fontanile ora quel povero
essere è morto...', 'sei un cretino' risponde il maestro.

sabato, gennaio 27, 2007

[admin] lavori in corso

I nostri quattro lettori (temo che siano veramente quattro, non è un eccesso di modestia) potranno notare qualche stranezza in questo blog nei prossimi giorni. Approfittando della ristrutturazione di blogger sto convertendo il blog ad un nuovo aspetto grafico. L'operazione non sarà ne immediata ne indolore.

Vi ringrazio per la pazienza.

LLP, Andrea